5 Marzo 2024

Separarsi: una fatica per i genitori, una necessità per i bambini

La possibilità di costruirsi come persone autonome e indipendenti e di vivere una vita piena e in salute passa attraverso la fatica di separarsi, fatica che per i bambini rappresenta un compito evolutivo importantissimo e per i genitori una grandissima, ma obbligatoria sfida in nome dell’Amore per i propri figli.
Se tu sei una base sicura la prima cosa che senti è la tranquillità nel vedere il tuo bambino che si stacca da te che è l’esatto contrario di molti, molti modelli attuali per cui la base sicura è appiccicata al bambino a cui viene offerta.
Alberto Pellai
Tempo di lettura: 10 min

Separarsi: una fatica per i genitori, una necessità per i bambini che dopo essere stati per nove mesi dentro la pancia della mamma e, se tutto va bene, per circa altrettanto tempo a stretto contatto con la stessa, piano piano cominciano a sentire il bisogno di prendere distanza. È una spinta evolutiva! Scoprono di potersi spostare nello spazio, di poter dire di no con il corpo, divincolandosi, spingendo via chi li vuole trattenere, affermando in vario modo la differenza che portano rispetto ai loro genitori. Questo non sempre piace alle mamme e ai papà, un po’ perché sentono di perdere il controllo sul figlio, un po’ perché in generale facciamo più fatica ad accettare ciò che è diverso da noi rispetto a ciò che è uguale. Ma è proprio nella differenza che si costruisce l’identità! Quindi favorire il processo di separazione-individuazione, riconoscendo i figli come persone diverse da noi, diverse dall’idea che avevamo di loro, lasciando progressivamente un maggior spazio di autonomia e di autoaffermazione se non è certo sempre facile e automatico, è tuttavia un regalo fondamentale che facciamo ai nostri figli!

Vittoria Maioli Sanese scrive che così come non può sopravvivere oltre i nove mesi un figlio dentro la pancia, allo stesso modo “muore” se non esce da quel rapporto fusionale dei primi tempi in quanto perde il suo sentimento di esistenza che deriva dal sentirsi protagonisti delle proprie azioni sul mondo.

Separarsi significa accettare di perdere un po’ il controllo, significa avere fiducia che il bambino senza di noi ce la farà, significa essere consapevoli che i figli sono fatti per andare e non per rimanere nel nido, significa essere consapevoli (e renderli consapevoli!) che hanno un corpo proprio e pensieri propri che man mano costruiscono in modo unico ed originale, se viene loro concesso.

Nella mia esperienza professionale e dal confronto con colleghi psicologi, psicoterapeuti, psicomotricisti ritrovo un filo rosso nelle varie situazioni di malessere del bambino: una difficile separazione. A volte si tratta di separazioni precoci, brusche, non elaborate come nel caso dei bambini nati molto prematuramente, ospedalizzati o di mamme che riportano problemi di salute in gravidanza o dopo (e su queste situazioni, ahimè, è spesso la vita che decide, noi possiamo al più lenire la ferita); altre volte però si tratta di separazioni mai avvenute per la necessità del genitore stesso di tenere il figlio vicino o per la paura di lasciare che il bambino vada per la sua strada, faccia la sua esperienza, incontri anche delle frustrazioni o delle difficoltà senza il bisogno di prevedere e prevenire tutto.

Per poter approfondire il tema ho chiesto al Dottor Alberto Pellai, ricercatore e docente presso il dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università degli Studi di Milano, di poter rispondere ad alcune domande per aiutare i genitori a riflettere. Pellai è stato ospite a “Educhiamoci – giornate per l’educazione” e “Cambio Gioco”, iniziative organizzate rispettivamente dal Comune di Vittorio Veneto e dall’Ulss6 Euganea di Padova in collaborazione con noi di I AM servizi

Dottor Pellai da che cosa nasce la difficoltà dei genitori di permettere ad un bambino di separarsi da loro? 

Da una parte separarsi dal figlio significa perdere un pezzetto di nutrimento affettivo che per i genitori è anche identitario cioè mi dà un ruolo, mi dà una funzione, mi dà un significato e allo stesso tempo mi fa sentire bene, pensiamo ad esempio a come tenere il bambino nel lettone è una cosa che genera molta tenerezza, un senso di intimità col bambino, quindi c’è dentro una bellezza percepita, una piacevolezza percepita. Il secondo aspetto è che nella separazione il bambino aumenta la sua dimensione di autonomia e quindi perde la dipendenza e questo agli occhi del genitore lo espone ad una quantità maggiore di rischi e di pericoli che attivano i bisogni di protezione: se io ti tengo attaccato a me, se io sono dove sei tu, io sto tranquillo perché non ti succederà niente di male. Inoltre oggi gioca a sfavore la fragilità emotiva dell’adulto che regola male la propria ansia protettiva cercando di azzerare il più possibile qualsiasi genere di rischio e inconveniente nella vita dei propri figli.

A questo proposito che ruolo gioca nella separazione l’iperprotezione e la tendenza a sostituirsi al figlio per evitargli frustrazioni e cadute?

Nell’iperproteggere e nel fare al posto del bambino e risparmiargli l’errore il genitore si sente tranquillo e soddisfatto, gli sembra di rendere il suo bambino molto, molto felice. In effetti un bambino che non vive frustrazioni, cadute ed errori è un bambino che apparentemente sta sempre bene, a cui non è accaduto niente di male, tuttavia è allo stesso tempo un bambino fragile perché non si allena a tollerare e ad affrontare anche quelle esperienze che nella vita non sono piacevoli, ma disagevoli! Quindi un genitore dovrebbe mettere dentro al proprio mansionario del genitore che allenare alla vita non vuol dire solo preparare ai grandi salti nel territorio della bellezza e della collettività, ma anche preparare al tempo della sconfitta, al tempo della fatica, al tempo del disagio che è un compito fondamentale in età evolutiva.

Cosa ne pensa degli allattamenti prolungati e del cosleeping prolungato (spesso anche fino all’età della scuola primaria e oltre)? Concorda con me nel sostenere che queste scelte abbiano delle ricadute negative nella possibilità del bambino di costruirsi come un individuo separato e autonomo?

Questo è veramente uno di quei temi per i quali qualsiasi cosa dici avrai delle persone che ti dicono il contrario perché la ricerca dimostra tutto e il contrario di tutto. Infatti noi abbiamo ricerche che ci dicono che il cosleeping diventa una zona di co-dipendenza e allo stesso tempo abbiamo studi che misurando e valutando il cosleeping dicono l’esatto contrario. In generale quello che credo è che sia molto importante che l’adulto aiuti il bambino a costruirsi un’identità autonoma e in questo la separazione è un passaggio fondamentale! Lavorando con i genitori ci accorgiamo che a volte il cosleeping in realtà è uno dei modi con cui noi raccontiamo una certa impotenza ad educare il bambino al tempo dell’autonomia che è un’educazione impegnativa! A me verrebbe da dire che il cosleeping ha senso nel momento in cui abbiamo la certezza che il bambino sa dormire anche da solo, in autonomia. Se sa fare questo allora gli posso offrire anche il cosleeping nei momenti in cui è ammalato, nel momento in cui ha bisogno, ma se il bambino a cinque o sei anni non sa fare l’esperienza del dormire in autonomia il rischio è davvero grande: questo aspetto lo rende più fragile invece che più forte e allo stesso tempo non gli permette di conquistare quello spazio di crescita necessario per ampliare il suo potenziale di socializzazione, ad esempio non potrà andare a dormire a casa dei nonni, a casa degli zii, a casa di un amico, non potrà fare vacanze se non solo con la mamma e con il papà…Quindi dargli questa competenza e questa abilità del dormire da solo alla fine facilita molto nel bambino l’acquisizione di vantaggi che vanno oltre all’imparare a stare nel suo lettino.

La nostra esperienza ci dice che anche continuare ad allattare il bambino ormai cresciuto e svezzato lo tiene in qualche modo dipendente e quindi più fragile nel momento in cui deve affrontare degli aspetti di socialità che lo allontanano dalla famiglia. Cosa ne pensa?

È così e in realtà vengono spesso citate a questo proposito le linee guida dell’OMS che raccontano anche di un allattamento prolungato oltre i tre anni addirittura, ma quando noi parliamo di linee guida OMS dobbiamo considerare che sono create su scala globale cioè che servono anche per le mamme africane: il cibo più sicuro per un bambino che cresce in territori molto poveri resta il latte della sua mamma. Questa però non è un’urgenza che abbiamo noi nei paesi occidentali. Inoltre, sempre all’interno delle nostre abitudini, dei nostri costumi, del nostro contesto socio culturale, pensare di ridurre il ricorso all’allattamento entro il primo anno o il secondo anno di vita (ognuno poi fa le sue scelte) significa permettere sia al bambino che alla sua mamma di avere il proprio spazio di azione di vita e di esplorazione e questo è fondamentale rispetto al tema che stiamo trattando.

Alla luce di quanto detto fino a qui, quali sono le conseguenze che potrebbe avere a lungo andare il non permettere ai bambini di costruirsi come individui separati e autonomi rispetto ai genitori? In particolare c’è la possibilità di sviluppare altri tipi di dipendenze potenzialmente pericolose o problemi in età adolescenziale o adulta?  

In generale direi che tutte le volte che la protezione è troppa, l’esplorazione diventa ridotta e quindi più noi teniamo un bambino in un territorio dove è molto protetto, più automaticamente limitiamo l’espansione verso quelle zone in cui può scoprirsi autonomo, può scoprirsi se stesso e non invece “se stesso-inglobato-dentro- al-corpo-e-all’esperienza-dell’adulto” che per lui è base sicura! Cioè il concetto di base sicura è un concetto importantissimo che non serve però a tenere appiccicato il figlio a sé: se tu sei una base sicura la prima cosa che senti è la tranquillità nel vedere il tuo bambino che si stacca da te che è l’esatto contrario di molti, molti modelli attuali per cui la base sicura è appiccicata al bambino a cui viene offerta.

Come possono i genitori orientarsi tra tante diverse teorie e tanti diversi modelli?

È molto difficile perché comunque la dici, la sbagli! È come se la stessa scienza non avesse generato una veduta comune. Questo oggi rimane un rischio enorme credo su tutti i temi dell’età evolutiva perché anche se dici ad un genitore (magari anche in una prospettiva molto clinica o scientifica) che la cosa che sta facendo non è la cosa migliore, lui comunque troverà da qualche parte scritto che sta facendo bene, che va bene come sta facendo e quindi non riuscirà veramente ad avere neanche nello scambio con il pedagogista o lo psicologo il sostegno che gli serve perché c’è troppo che viene detto, non sempre da persone competenti, non sempre a ragion veduta e non è una visione comune.

Il Dottor Pellai tratta il tema della separazione anche in alcuni dei suoi libri come “Io gomitolo, tu filo” e “Le mie mani sono le tue ali”. Ne ricaviamo l’urgenza di considerare questo argomento come centrale per il sano sviluppo del bambino e della persona, poiché un mancato raggiungimento dell’autonoma si ripercuote più di quanto potremmo immaginare su molti ambiti della vita tra cui anche la scuola e i rapporti con gli altri, limitandoli e impoverendoli.

A questo proposito il Dottor Stefano Vicari, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, in un recente articolo scrive: “L’ansia scolastica è un fenomeno in crescita: ne soffre una percentuale compresa tra il 5 e il 28 per cento di bambini e adolescenti. Ma l’ansia che attraversa bambini e adolescenti non è legata, alimentata solo dal contesto scolastico che esaspera la competizione e richiede continue prestazioni. Ha anche a che fare con la difficoltà a confrontarsi con i coetanei, dalla paura del giudizio, di non sentirsi all’altezza del gruppo. Non va nemmeno sottovalutata, tra i possibili fattori dell’ansia scolastica, anche la difficoltà che molti ragazzi manifestano nel separarsi dai genitori, i quali spesso favoriscono poco le autonomie dei propri figli”.

Concludiamo con Kalil Gibran, che nella poesia “I vostri figli”, uno dei suoi componimenti più conosciuti, ci invita ad accettare e incoraggiare la differenza che i figli portano in sé, a lasciarli andare, riconoscendo il loro diritto di essere dissimili rispetto a noi.

I vostri figli non sono figli vostri.
Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa.
Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi.
E sebbene stiano con voi, non vi appartengono.

Potete dar loro tutto il vostro amore, ma non i vostri pensieri.
Perché essi hanno i propri pensieri.

Potete offrire dimora ai loro corpi,
ma non alle loro anime.
Perché le loro anime abitano la casa del domani,
che voi non potete visitare, neppure nei vostri sogni.

Potete sforzarvi di essere simili a loro,
ma non cercare di renderli simili a voi.
Perché la vita non torna indietro e non si ferma a ieri.

Voi siete gli archi dai quali i vostri figli, come frecce viventi, sono scoccati.
L’Arciere vede il bersaglio sul percorso dell’infinito, e con la Sua forza vi piega affinché le Sue frecce vadano veloci e lontane.

Lasciatevi piegare con gioia dalla mano dell’Arciere.
Poiché così come ama la freccia che scocca, così Egli ama anche l’arco che sta saldo.

Dovremmo fare nostre queste parole e trattenere il messaggio importante che veicolano ricordando che se anche potessimo giustificare la preoccupazione dell’arciere di indirizzare la sua freccia nella giusta direzione, per fare centro nella vita, non potremmo mai giustificare la pretesa di rendere uguale la freccia con l’arco.