5 Gennaio 2024

Le brave bambine

L’unità di sé è qualcosa che si costruisce a partire dal vissuto del corpo in relazione e che ci permette di accettarci in tutte le nostre parti ed essere persone intere ed integre capaci di affrontare le avversità della vita e le sconfitte rimanendo ben saldi sui nostri piedi.
Noi tutti, da zero a cent’anni, desideriamo sopra ogni cosa di essere amati e faremmo qualsiasi cosa per esserlo (questo è il principio dell’attaccamento!) perciò spesso, pur di non perdere l’altro, rinunciamo a noi stessi e, in effetti, “ci perdiamo”
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“Una fata deve essere bella. E ordinata. Quando mangia la torta, non deve fare le briciole. E sui suoi vestiti non ci deve essere nemmeno la più piccola macchiolina. Deve raccontare storie adorabili con voce armoniosa e, di tanto in tanto, far ondeggiare la bacchetta. […]
Brutta faccenda essere una fata.” 

Questo testo, tratto dal libro “Rosmarino” di Brigitte Minne e Carll Cneut, introduce perfettamente il tema dei “bravi bambini”, nel titolo declinato al femminile per una propensione soprattutto delle bambine a ricoprire questo “ruolo”, ma senza voler ridurre ad una categoria di genere un vissuto della persona in cui chiunque può riconoscersi.

Io sono stata una brava bambina, una di quelle che cercano di essere sempre buone, che si comportano bene, che cercano di accondiscendere, che mettono gli altri al primo posto, a volte negando i propri bisogni e i propri desideri. Ho sacrificato in questo senso la mia autonomia, la possibilità di essere me stessa ed esprimerlo, da non confondere, come spesso accade, con la capacità di fare delle cose da soli. Il bisogno di autonomia è uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano che per qualcuno però è molto difficile da soddisfare. Essere autonomi richiede di poter dire di no, di differenziarsi, di sottrarsi alle aspettative che gli altri nutrono in te e questo per molti è difficile, anche per molti bambini perché è come se, disattendendo le aspettative altrui, si sentisse di perderne la stima, l’approvazione e infine l’amore. Ma, ahimè, noi tutti, da zero a cent’anni, desideriamo sopra ogni cosa di essere amati e faremmo qualsiasi cosa per esserlo (questo è il principio dell’attaccamento!) perciò spesso, pur di non perdere l’altro, rinunciamo a noi stessi e, in effetti, “ci perdiamo”.

Non cercate di essere buoni, siate integri” recita Jung, invitandoci a considerarci un intero, fatto di parti belle e meno belle, buone e meno buone, amorevoli, arrabbiate, parti che possono coesistere e che, di fatto, ci rendono unici e originali. Ma quanto è faticoso potersi dire in tutta onestà: “Tutto questo sono io, non sono parti distinte, questo è l’intero, è la mia storia, sono io” e potersi mostrare per come si è?

Molto spesso nei bambini che incontro vedo questa difficoltà a integrare le parti di sé in un’unità, una difficoltà che forse affonda le sue radici in quella che definisco “l’uscita dal due”, cioè da quel nucleo fusionale mamma-bambino dove c’è simbiosi, dove non ci sono ancora due persone distinte, ma che necessariamente dopo alcuni mesi deve terminare per il bene e la salute di entrambi. Si tratta della possibilità di dire “io sono diverso da te”. Lo dice il bambino alla mamma per poi dirlo a tutti gli altri, ci si costruisce la propria identità aiutati in questo da genitori che rinforzano la possibilità di essere diversi, unici, che permettono di “andare”. Questo presuppone anche una certa dinamica tra amore e odio, tra tenere e lasciare, tra avvicinarsi e allontanarsi che di certo muove molte diverse emozioni. Ma è proprio in questa polarità che si gioca la questione dell’integrità.

Quando il bambino nasce perde la sua unità, quel senso di totale pienezza e non-bisogno, sicurezza e protezione che avvertiva dentro la pancia della mamma ed è come se fosse “un cosmonauta lanciato nello spazio senza tuta e senza più niente che lo tiene insieme” (E. Bick). Sarà in base a come verrà tenuto, curato, portato, sostenuto, compreso, accettato, pensato, toccato, girato, posato, sollevato, amato…che costruirà la base del suo mondo interiore i suoi vissuti corporei, la sua vita psichica e se i genitori saranno “sufficientemente buoni” proverà un tale piacere in questa costruzione di sè che si sentirà di nuovo unificato e pieno, le parti verranno integrate di nuovo in un tutto. Ma ciò che accade nel corpo accade necessariamente anche nella psiche, quindi anche il vissuto di “andare a pezzi” emotivamente (per la rabbia, per la frustrazione, per un errore commesso, per una difficoltà ecc.) richiede che ci sia qualcuno che con il suo contenimento affettivo faccia sentire al bambino che “va bene anche quando non va bene” e rimetta insieme i pezzi in un intero che non può essere fatto solo di parti buone, belle e capaci.

Quando non c’è coerenza tra quello che sentiamo e quello che facciamo il corpo lo rappresenta, si chiude, si blocca, si irrigidisce. È come se di fronte ad un “sì” detto mal volentieri o un “no” che ci fa sentire tanto in colpa, non solo ci sentissimo arrabbiati e frustrati, ma anche i nostri organi interni sentissero di avere un “carico” da elaborare così intenso da generare stress, stanchezza, nervosismo e un continuo rimuginare nei pensieri.

Quanto è importante per un essere umano sentire che rimarrà intero e integro anche se sbaglia un compito, anche se a volte si comporta male, anche se fa arrabbiare la mamma o la maestra, anche se prende un brutto voto, anche se non la pensa come gli altri, anche se viene criticato…? Quanto è importante poter avere dei bisogni (fisici ed emotivi) e che questi possano essere espressi ed ascoltati, anche se non sempre necessariamente soddisfatti? Quanto è importante poter dire “sì” quando è “sì” e “no” quando è “no”, poter dire cosa ci piace e cosa pensiamo senza temere per questo di rimanere soli?

“Se ci si rivolge troppo agli altri ci si dimentica di sé. È necessario essere in equilibrio, essere aperti agli altri con sano egoismo.” (B. Aucouturier)

I bravi bambini hanno un prezzo da pagare che è una grandissima rabbia che se non esplode, implode. Quando io ho compiuto i miei passaggi di “guarigione” e ho lenito le mie ferite ho capito quanto prendere coscienza degli errori apra al piacere di vivere. E questo, come tutte le esperienze formative, mi aiuta ad aiutare.

Concludo ritornando a “Rosmarino”, un libro che consiglio a tutte le famiglie che sentono di avere dei bambini che fanno fatica ad accettare le parti “meno perfette” di sé o a quei genitori che si accorgono di chiedere troppo ai loro figli:

“E le cose vanno proprio così. A volte Rosmarino va a trovare le fate, si mette un abito da festa, fa la voce armoniosa e dorme nel castello in aria con le torri dorate, su una nuvola. A volte Rosmarino fa visita alle streghe, va a vivere nel bosco, va in barca e vola con la sua scopa. E la mamma? La mamma si annoia molto, molto, molto meno.”

Quando integriamo nell’unità tutte le parti, una finestra che si rompe non è più una casa che crolla, un errore sul quaderno non ci rende persone senza valore, arrabbiarci non ci rende persone cattive, perdere non è perdersi.